2022
Uno sguardo ad un luogo amato dell’alta Valtrebbia , con in primo piano i resti del manufatto di Ponte Lenzino. Un’intima dimostrazione di affetto per le proprie radici e per quei paesaggi che fanno parte della poetica pittorica di Carlo Bertè.
La prima pagina d’artista che campeggia oggi sulla Libertà, tradizionale augurio di Buon Natale che Editoriale Libertà rivolge ai propri lettori, riprende due temi cari al pittore: il primo è quello legato al paesaggio nelle sue molteplici forme, il secondo alle cosiddette “catastrofi” nelle quali Bertè raffigura architetture segnate da crolli, metafora degli accadimenti drammatici legati ai conflitti ma anche allo scriteriato utilizzo antropico del pianeta. “Mi è capitato di pensare di essere un pittore che faceva quadri falsi di un altro pittore che non è mai esistito, diventava un gioco di specchi…me ne sono reso conto alcuni anni fa…” raccontava tra il serio e il faceto in un incontro nel suo studio milanese sul finire del secolo scorso. “Lavorando continuamente cerco di imparare, faccio passare l’inverno a Milano e lavoro, e ogni volta imparo qualcosa di nuovo” sottolineava in quell’occasione.
A distanza di cinque lustri l’artista non ha perso la voglia di fare. Le opere di Berte continuano ad incantare per la loro delicata compostezza che, soprattutto nel paesaggio, tende a trasfigurare la realtà per spingere l’orizzonte verso una dimensione intima e di quieta riflessione. E’ il pensiero che prende forma in quelle che il critico e storico dell’arte francese Patrick Waldberg definì come “finestre sul cuore” ripensando il celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile” dove il protagonista, immobilizzato, osserva una serie di accadimenti misteriosi. I paesaggi di Bertè raccontano luoghi vicini, come appunto il Trebbia frequentato fin da bambino, ma anche lontani come i cieli carichi di stelle sul mare di Otranto o le notti di Oriente o ancora i profili di metropoli fino alle già citate catastrofi in cui l’artista si confronta con la pittura del lorenese Monsu Desiderio, noto per i suoi dipinti che rappresentano scene di ammassi di rovine, colonnati e architetture in stato di abbandono. “Ho incontrato Monsu Desiderio la prima volta quando frequentavo il Gazzola.
La sua traccia ha scavato a fondo anche se è rimasta sotterranea per molti anni. Ho seguito la sua presenza a Napoli, Venezia, La Spezia, Milano e Metz, la sua città natale” spiega l’artista. Una visione del mondo che, a prima vista, potrebbe risultare pessimistica e che invece si apre a scenari di tutt’altro genere. “Io sono un inguaribile ottimista. E’ vero si cade ma poi ci si rialza. L’arte fa bene, è un medicinale dell’anima sa per chi la fa che per chi la riceve” commenta al telefono da Parigi. “Una città che amo., è fatta non di mattoni ma di pietra, una pietra che senti sotto ai tuoi piedi mentre cammini lungo la Senna o sui Boulevard…”. Poche settimane fa Berte era a Piacenza in occasione di un incontro sul mondo artistico piacentino degli anni Sessanta all’interno della rassegna della Fondazione di Piacenza e Vigevano in Santa Chiara incentrata sulle fotografie di Prospero Cravedi. Un’occasione per rivedere vecchi amici come Armodio o Tambresoni, tra gli artefici della serata, ma anche per ribadire il suo inesauribile desiderio di dipingere. “Ultimamente ho molto disegnato, lavori grigi, sfumati. Si, mi definirei un pittore surrealista, ma soprattutto un pittore di grigi”. Una cromia che Bertè nobilita con la sua pittura colta e sempre piena di poesia.
Carlo Berté